Oltre la Cima del Palo - Il Koan della Realtà

 

Intervento nell’ambito della 23ª Biofera, Canzo, Battistero Villa Meda, settembre 2010

 

   

Vorrei permettere a ciascuno di voi di compiere quella che si potrebbe definire una “Triangolazione”. La “Triangolazione” è un metodo abitualmente usato in cartografia, ma non solo, per determinare in modo univoco la posizione (latitudine e longitudine) di un punto nello spazio. Si esegue prendendo come riferimento un oggetto che manifesti in modo inequivocabile la propria collocazione, per esempio un faro o una cima montuosa.

Immaginate di essere su una barca a vela, in una notte senza stelle, di avere il GPS fuori uso e di non sapere esattamente dove vi trovate e in quale direzione state andando. Scorgete alla vostra destra la luce di un faro, emessa con un certo intervallo e con una certa sequenza. Sulle vostre carte nautiche quelle caratteristiche corrispondono al Faro di Capo Spartivento. Bene: valutata la distanza dal faro per sapere se state veleggiando sottocosta, considerato il moto ondoso e le condizioni di vento, con tutta probabilità al sorgere del sole sarete in vista dello Stretto di Messina.

Analogamente se state compiendo la traversata delle Alpi e alle vostre spalle, sulla vostra destra scorgete li profilo inconfondibile del Monviso, potete supporre che camminando ad una buona andatura, in un paio di giorni sarete sulle Alpi Marittime e potrete scorgere il mare di fronte a voi.

Come si può effettuare, qui, in questo Battistero, una “Triangolazione” che permetta a ciascuno di verificare la propria posizione spazio-temporale all’interno della realtà?

Grazie all’eco.

Io emetterò onde sonore (parole) dirette verso il Punto di Fuga. Il punto di fuga in un disegno è ciò che dà la profondità di campo e il senso della distanza, è un punto verso cui tutte le linee tendono ed è unico: non esistono più punti di fuga, altrimenti il caos regnerebbe incontrastato, i pianeti se ne andrebbero per conto loro non rispettando le proprie orbite, le stelle si scontrerebbero e l’intero universo imploderebbe su se stesso.

Le onde sonore (esattamente come il sonar di un sommergibile o di una nave) saranno riflesse dal Punto di Fuga e giungeranno a ciascuno di voi dopo un tempo che vi servirà per calcolare dove siete, non certo rispetto al punto d’emissione dell’onda (a me), ma rispetto alla vostra meta e alla via percorsa per raggiungerla.

Proprio come il dito che indica la luna.

Per questo dichiarerò la mia latitudine con una storia, una di quelle storie che si raccontano ai bambini prima di dormire, quindi espliciterò la mia longitudine con l’esposizione di alcuni Koan e l’indicazione di una loro possibile soluzione.

Sentite le dissonanze e le armonie, gli stridori e le melodie che il vostro orecchio interno vi rimanderà e in qualunque momento, per qualunque ragione ritenetevi autorizzati ad uscire dal Battistero.

 

Latitudine.

C’era una volta… la Coscienza, che -non si sa bene perché, forse si annoiava, forse voleva essere certa di esistere, forse cercava solo di divertirsi- creava giochi, sì giochi.

Ne aveva già creati molti, si dice fossero infiniti, ciascuno con caratteristiche uniche e irripetibili, tutti perfettamente funzionanti, che giravano in contemporanea su altrettante piattaforme, perfette anche loro.

Non aveva mai pensato di apporrvi la sua firma, in calce: chi mai avrebbe potuto copiare o riprodurre una sua creazione, dal momento che nulla esisteva tranne lei?

Era stata una piccola leggerezza, bisogna ammetterlo. In alcuni giochi si stavano infatti manifestando delle faglie, delle discontinuità, delle rughe, generate dal dubbio, il dubbio che il Mu, l'origine del Nulla, la radice del Tutto, fosse proprio lei.

Niente di preoccupante, beninteso, ma forse era giunto il momento di creare una firma, o meglio un sigillo, proprio come quello che gli artisti di Sumi-e o i calligrafi di Shodo stampano sulle loro opere.

Sarebbe nato un gioco-sigillo, da apporre su tutti i giochi presenti e futuri, come fosse un antivirus a spettro infinito.

Raccolse quindi tutti i bug, gli irrisolti, le anomalie, le disfunzioni, i disequilibri che si erano manifestati e che avrebbero ancora potuto manifestarsi negli altri giochi e li mise nella sua mano, poi li guardò: erano diversissimi tra di loro, bisognava renderli omogenei, così decise che il mondo che li avrebbe ospitati sarebbe stato l'unico mondo delle forme esistente, il più primitivo, rozzo, spietato tra tutti i mondi del possibile. Sarebbe stato un gioco-discarica in cui il compito dei giocatori sarebbe consistito nel catalogare, separare, riciclare e riconvertire i rifiuti grazie a un termovalorizzatore situato al centro del gioco, chiamato Amore e sull'architrave che sosteneva l'entrata nel gioco si sarebbe potuto leggere: "La Grande Opera".

Visto che le discontinuità e le faglie erano nate dal dubbio, pensò fosse il caso, per rendere il gioco complesso ma nello stesso tempo semplice, di creare un creatore, colui che tutti avrebbero chiamato Dio e che avrebbero identificato come l'unico, vero, assoluto essere supremo, Dio il creatore appunto. A lui affidò le chiavi del gioco, ne sarebbe diventato il guardiano, colui che avrebbe impedito agli schiavi in catene di liberarsi e uscire dalla caverna, agli spettatori di alzarsi dalle loro poltrone  e uscire dal cinema servendosi degli exit e non della porta in cui erano entrati e dove lui li aspettava, colui che si sarebbe nutrito di devozioni, sacrifici, preghiere ma anche di violenze, sopraffazioni, abomini per accrescere il proprio potere, alimentare la propria immortalità, gonfiare a dismisura il proprio ego ipertrofico, diventando così la più spaventosa eggregora mai comparsa in tutti gli infiniti universi.

Ora doveva compiere l'ultimo atto, farsi lobotomizzare da Dio ed entrare nel gioco, immemore di sé e del fatto che il gioco e Dio stesso erano stati creati da lei.  Lei, essere infinito sarebbe diventato finito, lei, essere eterno, sarebbe diventato mortale, lei, unica e assoluta sarebbe diventata maschile-femminile, giorno-notte, amore-paura, sì-no, gioia-dolore, vita-morte.

Sarebbe riuscita, lei, senza memoria, a prendere in mano i rifiuti prodotti dagli altri giochi, non considerarli come tali ma riconoscerli come preziosi, a trasmutarli trasfigurandoli, a compiere la Grande Opera esaurendo Nigredo, Albedo, Rubedo, ad attraversare indenne il mare d'immondizie che si sarebbe nel frattempo autogenerato e a sfidare Dio, il signore del gioco, a vincerlo, sottraendogli le chiavi, riacquistando così la memoria di sé in modo che più nessun dubbio potesse insinuarsi in ognuno degli infiniti mondi del possibile da lei creati? Sarebbe riuscita cioè a risolvere il koan che lei stessa aveva originato?

Non le restava che dare inizio al gioco e lo fece creando lo Specchio in cui lei, dall'altra parte, avrebbe potuto guardarsi, riconoscersi e riacquistare la memoria di sé a patto di aver prima spazzato via lo strato di polvere, ovvero Dio, che lo ricopriva. Quindi gli passò attraverso, lo Specchio si ruppe in un'infinità di frammenti, tutti contenenti l'immagine di lei, e l'ologramma della realtà ebbe inizio.

 

Longitudine.

Mi direte: “Stai forse affermando che tutto ciò che i nostri occhi vedono, le nostre orecchie sentono, le nostre mani toccano, non sia altro che un gioco?”

Sì.

Sto affermando che la realtà in cui noi tutti viviamo, percepita dai nostri sensi, analizzata dalla nostra mente, modificata dalle nostre azioni, con i drammi, le gioie, le violenze, gli amori che la compenetrano, non è che uno spettacolare, perfetto gioco.

“Quindi la realtà, di per sé, non esiste?” Sì, la realtà non esiste, pur esistendo.

Ha ragione chi afferma che la realtà esiste, ha ragione chi afferma che la realtà non esiste.

Nessuno ha ragione, tutti hanno ragione poiché, come recita l’Hannya Singhyo:

i fenomeni non sono diversi dal Vuoto, il Vuoto non è diverso dai fenomeni;
i fenomeni diventano Vuoto, il Vuoto diventa i fenomeni
e per la percezione, il pensiero, la volontà e la coscienza vale la stessa cosa

 

ogni esistenza ha il carattere del Vuoto
non c'è nascita né morte, non c'è impurità né purezza, non c'è crescita né declino

 

“Allora, ciò che ci sta di fronte e che osserviamo, cos’è, a cosa serve?” Forse dovremmo prima rispondere alla domanda: “Chi è che osserva?”, o meglio “Cos’è chi osserva?”; ma partiamo dalla risposta forse più facile e chiediamoci che cos’è veramente questa realtà in cui tutti siamo immersi e qual è lo scopo, se c’è uno scopo, della sua esistenza.

Mi piace pensare alla realtà come ad un palo della cuccagna, quello che ancora in qualche festa di paese si erige al centro della piazza con in cima, prosciutti, salami e altri premi. Tutti provano ad arrampicarsi, qualcuno scivola e cade per poi rialzarsi e tentare ancora, qualcuno più abile o più fortunato riesce a raggiungere velocemente la cima e ad afferrare l’ambito premio: sarà un amore, una casa, un lavoro, una serena vecchiaia, l’assenza di malattia, il benessere o la felicità. D’altronde che altro fare se non c’è altro da fare che vivere la vita e utilizzare la realtà come palcoscenico?

Quel palo, però, è solo apparentemente un palo della cuccagna e non è stato messo lì, al centro della piazza, per permettere ai partecipanti alla festa di salirci su e afferrare i premi; è stato messo lì per potersi arrampicare, lasciar stare i premi e andare oltre.

Oltre dove? Oltre la cima del palo!

Non sarà facile contraddire i nostri occhi che imperterriti affermeranno di vedere la fine del palo e di non vedere nulla oltre, non sarà facile convincere la nostra mente che il palo è soltanto il dito che indica la Luna, non sarà facile spostare il nostro sguardo dalla rassicurante realtà, all’ignoto vuoto, non sarà facile ricordare a noi stessi di essere infiniti, eterni, di non essere mai nati e di non poter quindi morire.

La realtà non è stata creata per essere vissuta, bensì per essere trascesa e trasfigurata ma per fare ciò la si deve vivere, il palo deve essere scalato, si deve giungere alla cima, staccare i premi, lasciarli cadere a terra e proseguire oltre, senza più ostacoli.

Oltre, c’è la memoria di Sé.

“Quanta fatica ci attende!”, si potrà affermare.

Nessuna fatica ci attende, poiché non c’è nulla da raggiungere, non c’è palo su cui doverci arrampicare, non c’è cima di palo oltre a cui andare, non c’è memoria da riconquistare.

Noi siamo già chi siamo, il koan è già stato risolto, il gioco si è già concluso, il sigillo è già stato apposto.

“No, non può essere così semplice. Allora, perché le violenze, le uccisioni, i soprusi, le atrocità, le devastazioni, le sofferenze, le umiliazioni esistono e fanno così male? ”

Nessuno ha mai sostenuto che sciogliere i nodi (forma assunta in questa realtà dalle faglie e dalle rughe) fosse cosa facile, specie se questi sembrano essere nodi di gomene di navi, incrostati dalla salsedine e seccati dal tempo. I nodi esistono solo se noi vogliamo che esistano, sono serrati e impenetrabili solo se noi vogliamo che lo siano, sono inestricabili e insolubili solo se noi li vediamo tali. Non esistono nodi se noi non vogliamo che esistano.

In verità, questi, sono finti nodi fatti da un prestigiatore su una morbida, bianca corda di cotone: basterà prenderne un capo con la mano, dare un piccolo ma deciso strattone e i nodi scompariranno, ma finché avremo bisogno ancora di nodi intrecciati su ruvida canapa, questi esisteranno.

Allo stesso modo, finché avremo bisogno di violenza ci sarà violenza, finché avremo bisogno di atrocità ci saranno atrocità, finché avremo bisogno di sofferenza ci sarà sofferenza, finché avremo bisogno di avere ancora la benda sugli occhi, saremo certi di essere ciechi, mortali e finiti.

Esistono due sole Vie per risolvere il Koan della realtà.

- La prima Via è quella di sciogliere uno ad uno, con le nostre mani, tutti i nodi che la vita ci pone di fronte, utilizzando gli strumenti e gli attrezzi messi a disposizione dalla realtà (esperienza, conoscenza, sapienza, religione, cultura, scienza, meditazione, spiritualità, amore, intelligenza…).

- La seconda Via è questa.

Hui Neng (Eno) era un povero contadino analfabeta che pelava patate e lavava il riso nella cucina del Monastero retto dal Quinto Patriarca, Hung Jen. Un giorno, il Quinto Patriarca disse ai suoi monaci di esprimere la loro saggezza in una poesia. Chi avesse dimostrato la vera realizzazione della sua natura originale (Natura di Buddha) sarebbe stato ordinato Sesto Patriarca. Il monaco anziano, assai colto e sapiente, scrisse i seguenti versi, appendendoli alla porta del maestro:

 

Il corpo è l'albero della saggezza
La mente è un lucido specchio
Abbi cura di spolverarlo continuamente
Per impedire che la polvere vi si accumuli

 

Hui Neng chiese ad un suo compagno di leggergli la poesia, quindi decise di comporre a sua volta dei versi; dettandoli all’amico affinché li trascrivesse:  

 

In realtà non esiste alcun albero della saggezza
Né specchio lucente
Tutto è vuoto fin dal principio
Dove potrà mai posarsi la polvere?

 

Il Quinto Patriarca lo convocò, gli diede il suo abito (Kesa), la ciotola e lo riconobbe come suo successore. Hui Neng divenne così il Sesto Patriarca, il più importante maestro nel Buddismo Zen, fondatore della Scuola dell’Improvviso Risveglio.

Era un contadino analfabeta, non conosceva i testi sacri, non aveva mai assistito alle lezioni del maestro, non si era mai seduto in meditazione, non aveva neppure ricevuto l’ordinazione da monaco, ma aveva scelto la seconda via, quella dell’Improvviso Risveglio.

 

 

Ho percorso la prima Via, cercando di risolvere uno ad uno i Koan che la vita mi poneva di fronte, penetrandone la complessità e dissolvendone la densità per lasciar comparire la semplicità che si celava al loro interno.

Come scultore, ho cercato di dare forma a questa semplicità, invitando il cammello a passare attraverso la cruna dell’ago, l’oca cresciuta nella damigiana a passare attraverso il collo, per poter indicare la Luna ai viandanti della seconda Via.

L’ultima forma che la semplicità ha assunto è stata quella di una trottola, in Azobè e Abete di Risonanza, giunta dopo migliaia di altre trottole, ciascuna delle quali ha portato con sé un frammento di memoria, ciascuna delle quali ha esortato ad abbandonare un frammento di conoscenza, permettendo così di percorrere a ritroso il cammino del gioco, fino al suo inizio.

In qualunque momento, per qualunque ragione, si potrà imprimere la rotazione alla trottola e osservarne la danza, riportando così alla luce l’Origine del Tutto e ricordando, in un solo istante, il proprio Vero Nome.

Dopo, solo più il sorriso.