A fuoco

 

 

Da giovane, una reflex: corpo macchina, grandangolo, zoom, teleobiettivo, una sacca a tracolla e via a fotografare la realtà.

Allora, la realtà mi sembrava solida, consistente, indagabile dai sensi e rappresentabile dall’arte.

Bastava afferrare con la mano dominante la fotocamera e con l’altra ruotare la ghiera dell’obiettivo per mettere a fuoco ciò che si voleva fissare sulla pellicola.

Nessun automatismo, era il fotografo che decideva, combinando il tempo d’esposizione con il diaframma, ciò che nella fotografia finale sarebbe risultato nitido e ciò che invece ne avrebbe costituito l’intorno naturalmente sfocato.

La ghiera della messa a fuoco -spazio- unitamente ai centesimi di secondo -tempo- avrebbero determinato la distanza soggettiva, non oggettiva, dell’osservatore dall’oggetto osservato conferendogli in questo modo dignità d’esistenza ovvero creandolo.

Il click dell’otturatore avrebbe provocato il collasso della funzione d’onda e il suo successivo precipitare nel mondo delle forme, dove l’onda avrebbe assunto le caratteristiche di particella.

Tale processo si sarebbe manifestato in camera oscura a luce rossa -rubedo- o giallo verde -viriditas, citredo- intervenendo sulla pellicola al buio assoluto -nigredo- per ottenere il negativo, proiettarlo con un ingranditore e stamparlo su supporto cartaceo -albedo-.

Per entrambe le fasi la sequenza era: esposizione, sviluppo, fissaggio, quindi lavaggio e asciugatura.

Processo alchemico?

Ora, in Italia ci sono più dispositivi mobili, ciascuno dotato di fotocamera, che numero di abitanti: esistono miliardi di fotografie messe in rete sui vari siti adibiti a ospitarle e naturalmente nessuna ghiera, nessun otturatore, nessun ingranditore, nessuna camera oscura, nessuno sviluppo.

Nessuna messa a fuoco.

Nessuna alchimia.

Oh, è solo una metafora, niente di più.

La rete, con la miriade di interconnessioni che la compongono e la sostengono, si è calata -o è stata calata- sul Campo Morfogenetico di Sheldrake, sull’Akasha di Steiner, sul Mondo delle Idee di Platone, sul corpo nudo di Shakti, ricoprendoli completamente con quel velo di shopenhaueriana memoria e proiettandovi sopra la visione di un mondo affidato a macchine sempre più intelligenti, detentrici di quelle informazioni ritenute necessarie e indispensabili alla vita di un’umanità ormai priva del desiderio e della volontà di mettere a fuoco la realtà reale, di penetrarla e di ricongiungersi con lei.

Ma gli alchimisti, i custodi della Grande Opera, che ne è stato di loro? Sono sopravvissuti? Si sono rifugiati al centro del Mondo? Si sono sollevati con le loro Arche al di sopra del Mondo? Oppure sono rimasti qui ad assistere alla fine dell’ennesimo yuga, impotenti e rassegnati?